Il Mal di Schiena e la paura di muoversi: come evitare che il dolore diventi cronico

La sofferenza fisica è spesso accompagnata da paure, strategie di anticipazione del dolore e da comportamenti di evitamento del movimento. Un circolo vizioso che conduce alla cronicizzazione del disturbo.

Nei precedenti articoli abbiamo affrontato il tema dell’utilità di un approccio combinato composto dalla fisioterapia, dall’esercizio fisico e dalle terapie psicologiche, per la cura ottimale del mal di schiena, soprattutto di tipo cronico. Allo stesso tempo, purtroppo, in Italia questo tipo di terapie risulta essere largamente sotto-utilizzato a causa dell’inappropriata prescrizione di farmaci e di esami non utili, ma anche a causa delle credenze sbagliate e dei preconcetti esistenti nei confronti della psicoterapia.

Che cosa innesca quel circolo vizioso che dal dolore conduce all’evitamento dei movimenti per paura di sentire il dolore, prima ancora che questo possa essere percepito? Nei primi anni 2000 Vlaeyen e Linton, due psicologi, introducono il concetto di Strategia di “Paura-Evitamento” applicato al dolore cronico, inteso come circolo vizioso che si sviluppa a partire da un evento in cui si è provato dolore, come può essere un incidente, un trauma, o più semplicemente il comune mal di schiena.

Nel mal di schiena ad esempio è in parte possibile prevedere se il disturbo avrà più probabilità di diventare cronico in uno specifico paziente o meno: con un’attenta visita fisioterapica è possibile individuare la presenza di fattori di rischio che possono concorrere a ostacolare o dilatare i tempi di recupero. Tra questi vi sono anche le credenze errate rispetto alla propria condizione di salute, a seguito del mal di schiena, e sul mal di schiena stesso. Rimane ad esempio a riposo a letto per molti giorni quando si ha il mal di schiena, ne ritarda la guarigione così come evitare i comuni movimenti della vita quotidiana (piegarsi per vestirsi o indossare le scarpe) se non ci sono sintomi che si irradiano anche agli arti inferiori.

Grazie alla precoce identificazione dei fattori di rischio è possibile attuare delle decisioni terapeutiche mirate e più specifiche per ogni paziente: per quei pazienti che potrebbero migliorare più rapidamente è infatti sufficiente consigliare loro di mantenersi attivi fisicamente e fornire delle indicazioni per gestire autonomamente il loro disturbo, anche con poca fisioterapia. In questi casi è utile infatti un’accurata valutazione fisioterapica che identifichi altri potenziali rischi di cronicizzazione ma spesso non è necessario un periodo di riabilitazione intensivo o particolarmente lungo. In altri casi invece, quando il rischio di avere un decorso lungo e sfavorevole è più elevato, è raccomandato un approccio di tipo più complesso e intensivo che comprende un programma di terapia manuale, di esercizi terapeutici e di psicoterapia: in particolare le Linee Guida suggeriscono l’approccio psicoterapico di tipo cognitivo-comportamentale. Inequivocabilmente, dicono sempre le Linee Guida, sono da evitare l’agopuntura e l’utilizzo del paracetamolo come unica terapia.

Il Ruolo della Terapia Cognitivo Comportamentale

In questi casi la terapia cognitivo comportamentale andrà a lavorare sulle credenze irrazionali relative alla paura di sentire dolore, sui pensieri catastrofici legati al disturbo ma anche sul cambiamento dello stile di vita e delle abitudini quotidiane. Le persone spesso si sentono bloccate dal timore di sentire male, si percepiscono vulnerabili e impotenti ed iniziano ad evitare movimenti e situazioni che ritengono dannose o pericolose. Sovente queste strategie di evitamento vengono utilizzate in modo generalizzato e pervasivo e causano un peggioramento significativo della qualità della vita dei pazienti, una compromissione del funzionamento sociale e lavorativo che, a sua volta, causa sentimenti depressivi e perdita di autostima. Insomma, il rischio è che si instauri un circolo vizioso e la paura può trasformarsi in ansia e iper-attenzione costante.

Come sottolineato nel modello di Vlaeyen e Linton questi pensieri irrazionali, la paura di sentire male e il conseguente evitamento di alcuni movimenti sono fattori predittivi di un dolore cronico. In pratica, nel caso di disturbi come il mal di schiena, le persone più preoccupate e ansiose, hanno una prognosi meno favorevole. Quando si presentano queste condizioni, la terapia cognitivo comportamentale rappresenterebbe il trattamento d’elezione poiché aiuterebbe i pazienti ad osservarsi dall’esterno, a gettare nuova luce sugli gli schemi emotivi (la paura di provare dolore, la percezione di sentirsi vulnerabili, la sensazione di allarme costante), cognitivi (l’idea di dover fare attenzione e di dover evitare alcuni movimenti e di non reversibilità della propria condizione di “malattia”) e comportamentali (evitamento e chiusura), e le aiuterebbe a sostituirli con strategie di pensiero e comportamento più funzionali. Ad esempio il paziente può essere aiutato dal terapeuta a non anticipare e drammatizzare la sensazione di dolore, a tollerare e gestire l’ansia connessa ai movimenti temuti e, attraverso esercizi di desensibilizzazione progressiva, a compiere movimenti e mansioni via via più complessi ottenendo così un miglioramento della qualità della vita e un innalzamento del tono dell’umore che diventano rinforzi positivi e incentivi per i successivi miglioramenti.

Questo tipo di intervento risulta vincente perchè, quando si trovano all’interno di questo circolo vizioso, le persone hanno bisogno di una lettura più realistica e funzionale della situazione, di un aiuto per superare la paura e ricominciare ad avere padronanza della propria vita in modo da poter ricominciare a uscire, fare la spesa o svolgere attività fisica con serenità.

In fine, come sottolineato sempre nel modello di Vlaeyen e Linton, anche l’aver ricevuto delle informazioni scorrette e allarmanti riguardo alla patologia di cui soffre non fa altro che alimentare il circolo vizioso di dolore, paura ed evitamento del movimento. Pertanto il primo, fondamentale ruolo del fisioterapista e dello psicologo, è quello di escludere che si tratti effettivamente di una patologia grave che necessita di ulteriori accertamenti medico-diagnostici, e di informare correttamente i pazienti riguardo alla natura del disturbo di cui soffrono.

Dott.ssa Elisa Boggeri – Psicologa, Psicoterapeuta cognitivista, Socia SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva)

Dott. Antonello VicecontiFisioterapista, Terapista Manipolativo Ortopedico

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